Quando si pensa al concetto di Famiglia sicuramente le prime parole che affiorano alla mente sono termini come sicurezza , affetto, unità. Un nucleo consanguineo legato da vincoli parentali o semplicemente unito da un forte e indissolubile legame di amore e protezione reciproca, un pilastro su cui basare la società in cui si vive e che in un certo modo scandisce e regolarizza i valori della società stessa.
Tuttavia non sempre questa descrizione corrisponde alla realtà. Spesso sotto il patinato e pulito ritratto di una famiglia apparentemente perfetta e armoniosa, si celano lati oscuri e disfunzionali, vere e proprie famiglie da incubo che nel corso della storia sono andate a riempire le pagine della cronaca nera o della fantasia di autori e scrittori che hanno raccontato la propria esperienza diretta o che hanno cercato di descrivere realtà a loro circostanti nascoste e sottaciute.
Effettivamente l’idea della Famiglia come portatrice (in)sana di disvalori e orrori è uno dei concetti che più ci terrorizza e angoscia, poiché è in essa insita il crollo di una delle più forti certezze a cui ci aggrappiamo nel nostro vivere comune. Il mondo là fuori può anche essere pericoloso e spietato, ma dentro il guscio della famiglia siamo al sicuro. Inoltre è qui che impariamo come comportarci, come relazionarci con il prossimo, come avere rispetto per noi stessi e per gli altri, come può questo cantuccio in cui siamo cresciuti e che riconosciamo come casa, come ultima roccaforte sicura, nascondere delle insidie, delle perversioni, degli orrori?
Fortunatamente il più delle volte non è così, ma è la realtà stessa a ricordarci come questa sicurezza venga costantemente minata da fatti nudi e crudi, dalle violenze domestiche al plagio intellettuale delle menti dei familiari ,che ci atterriscono e soprattutto ci ricordano che anche noi siamo gli “altri di qualcun altro”, e che potremmo ritrovarci ad essere noi quegli orrori inspiegabili e terrificanti perché avvolti da una patina di normalità e quotidianità.
Il cinema, in quanto grande narrazione di massa, si è spesso occupato di raccontare un immortale pilastro sociale come la Famiglia, e per diversi anni , soprattutto nell’industria hollywoodiana post bellica, lo schema privilegiato è stato quello rassicurante e a lieto fine del nucleo indivisibile e sempre pronto a reagire compatto ad ogni avversità.
Tuttavia, almeno dagli anni 60′ in poi, un genera si è fatto portatore di una narrazione che ha spesso inquadratura nelle sicurezze e nella perfezione della Famiglia un bersaglio da smontare e raccontare portando alla luce tutte le ombre, spesso con un caustico gusto per l’eccesso e l’estremizzazione, ma con il preciso obiettivo di dimostrare che storture e disfunzioni esistono e non possiamo fingere di ignorarli. Questo genere è ovviamente l’horror, o le sue declinazioni in thriller, e quale occasione migliore di un Halloween che, ci si perdoni la battuta, si passerà probabilmente per forza maggiore in famiglia, di fare un po’ un excursus dei più noti e inquietanti nuclei parentali apparsi sul grande schermo, insomma, a tutti quei casi dove, dietro la parola Famiglia, si nasconde in realtà un orrore. Addentriamoci a conoscere un po’ queste famiglie da incubo ma vvertiamo che, per maggiore orrore, l’analisi sarà pregna di spoiler.
LA MAMMA E’ SEMPRE LA MAMMA
Primo grande capostipite dell’horror moderno, anche se il suo genere andrebbe più a ricercarsi nel thriller d’atmosfera, è indubbiamente Psyco (Psycho) di Alfred Hitchcock, del 1960. Una delle prime pellicole, se non direttamente la prima, che aprirà la strada ad un filone, per il quale bisognerà attendere un’altra decina d’anni, in cui a spaventare non sono più lupi mannari e vampiri, bensì serial killer psicopatici e assetati di sangue.
Tratto dall’omonimo romanzo del 1959 di Robert Bloch e celeberrimo per la sequenza della brutale uccisione nella doccia, il film si gioca quasi interamente sull’ambiguità della reale identità che si cela dietro all’assassino del Bates Motel.
Ed eccola qui la nostra prima particolare famiglia, i Bates, composta dalla madre, Mrs Bates, e il figlio Norman, al quale da l’agghiacciante e intenso volto Anthony Perkins.
Unito alla madre da un legame visibilmente edipico e morboso, per tutta la durata della pellicola lo spettatore è portato a pensare che Norman sia una vittima degli abusi psicologici della genitrice, che gli impedisce di avere amicizie femminili e lo rende complice dei suoi atroci delitti.
Soltanto nel finale a sorpresa, uno dei plot twist più famosi della storia del cinema, scopriamo che in realtà la signore Bates è morta, uccisa da Norman stesso che non le aveva perdonato di essersi messa con un altro uomo, e conservata cadaverica e scheletrica dal folle figlio che ne assume la personalità e la voce, con tanto di vestiti e parrucca, in un angosciante sdoppiamento di ruoli.
La domanda che sorge spontanea al termine della visione infatti è, l’assassino in parrucca e gonnella, è solo Norman travestito o in certo senso quella è proprio la signora Bates, creando così un perverso circolo in cui genitrice e progenie sono entrambi carnefici e vittime.
Ispirato alla macabra figura del serial killer Ed Gein, le cui gesta furono così scabrose e perverse dal farlo diventare una vera e propria fonte di ispirazioni per molti maniaci del grande schermo, uno dei tanti capolavori del Maestro del Brivido spalanca direttamente le porte a tutto un filone fatto di personaggi ambigui e mostruosi nella loro apparente quotidianità che è sopravvissuto fino ad oggi.
Ci spostiamo ora in Italia, nel 1975, quando Dario Argento, di cui lo stesso Hitchock pare abbia detto con il suo solito humor nero“questo ragazzo mi preoccupa”, realizza una delle sue pellicole più famose, Profondo Rosso.
Assodato che questa analisi nel mondo dell’orrore è “spoiler free”, dovremo quindi parlare di quest’opera di Argento partendo proprio dalla rivelazione finale, ovvero che l’identità dell’efferato assassino nero-vestito alle cui gesta abbiamo assistito impotenti per tutto il film, e che siamo stati per un momento sviati a credere che fosse il migliore amico del protagonista David Hemmings ovvero Carlo (Gabriele Lavia), soltanto nelle ultime battute della storia scopriamo invece essere la madre di quest’ultimo, una presenza che fino a quel momento ci era stata mostrata come un personaggio innocuo e un po’ svampito e che invece si trasfigura completamente nel volto penetrante di Clara Calamai.
Questa, attrice che già fece parlare di sé all’epoca per essere stata il primo seno nudo del cinema italiano viene qui recuperata da Argento dopo anni di inattività in quello che forse è suo ruolo più celebre, un ex attrice psicopatica e implacabile armata di mannaia e coltellacci, assassina del marito, reo di volerla rinchiudere in una casa di cura, che uccise la sera di Natale di fronte all’impietrito figlioletto, Carlo appunto, l’unico verso cui la terrificante donna sembra provare una commossa empatia, pur essendo stata la causa primaria dello sfacelo della sua vita.
La genitrice in giacca di pelle e furia omicida non è l’unico caso di arzilla e sanguinaria psicopatica del nostro cinema, nello stesso anno esce infatti La casa dalle finestre che ridono, di Pupi Avati, la cui struttura narrativa è in qualche modo riconducibile a quella di Profondo Rosso, e in effetti anche qui nello scioccante finale, scopriamo che i delitti compiuti nel corso del film sono firmati dalle due diaboliche e anziane sorelle Legnani, che sacrificano esseri umani in onore loro fratello allucinato pittore morto di soggetti defunti, morto lui stesso suicida e conservato dalle malefiche sorelle in formaldeide. Un adorabile quadretto familiare non vincolato questa volta da legami genitoriali ma fraterni, che però era impossibile non accennare.
Per finire questa prima carrellata, come non citare quella che ha finito per diventare una delle saghe horror più celebri di sempre, ovvero Venerdì 13. La particolarità di questa serie sta però nel fatto che il suo primo capitolo, diretto nel 1981 da Sean Cunningham e scritto da Victor Miller, non presentava come antagonista principale colui che diventerà un mostro iconico armato di maschera da hockey e machete, ovvero Jason Voorhees, anzi, stando alle intenzioni dello sceneggiatore, l’opera avrebbe dovuto essere uno stand alone e il personaggio in questione avrebbe dovuto essere semplicemente un povero bambino affogato, suscitando la folle reazione della madre Pamela, che si abbatterà sanguinaria e omicida su chiunque provi a riaprire il Camp Cryastal Lake, ovvero il campeggio in cui l’adorato figlioletto è morto. E’ infatti ancora una volta la dissennata genitrice, che ha il volto e il ghigno di Betsy Palmer, l’autrice dei delitti a tinte slasher che diventeranno un marchio di fabbrica della serie.
Sarà poi il responsabile degli effetti speciali Tom Savini ad avere l’intuizione di far tornare in vita Jason, inaugurando così i molteplici, e fin troppo ridondanti sequel. Ma nelle intenzioni di Miller il piccolo non avrebbe mai dovuto diventare il carnefice, bensì restare una vittima passiva della situazione, è quindi facile immaginare il disappunto delle sceneggiatore alla gigantesca modifica del suo concept originario.
INDOVINA CHI VIENE A CENA
Il termine slasher si riferisce ad un particolare sottogenere dell’horror in cui è presente un personaggio, solitamente un maniaco omicida, che armato di oggetti taglienti si abbatte con furia assassina sugli inermi protagonisti, venendo solitamente sconfitto dall’ultimo rimasto.
Trattasi di uno schema ricorrente, ma il primo film che coniò questa espressione è Texas Chainsaw Massacre, meglio noto in Italia come Non aprite quella porta, del 1974.
E’ un film che segna una svolta epocale nel genere horror, fino a quel momento forse solo Psyco si era avvicinato verso quel territorio, che nelle sapienti mani del regista Tobe Hooper si spinge verso eccessi così torbidi e scioccanti da rendere il film un pugno nello stomaco tutt’oggi, e il rapporto tra Incubo e Famiglia è assolutamente centrale.
La storia piuttosto semplice, camuffata da reale fatto di cronaca, è quella di un tranquillo gruppo di amici che si ritrova senza benzina durante una gita in Texas, e arrivati nei pressi di una casa isolata di ritrova alla mercè del terrificante e gigantesco Leatherface, assassino con una maschera di cuio sul viso e armato di martello e sega elettrica, del quale diventeranno quasi tutti carne da macello.
Ma Latherface non è un lupo solitario che ammazza per il proprio piacere, come scoprirà a sue spese Sally, l’unica sopravvissuta del gruppo, lui è il membro di una grottesca e bestiale famigliola composta da suo padre, tirannico Cuoco e capo della banda, lo svitato fratello profanatore di tombe che fingendosi autostoppista procaccia le vittime, e l’inquietante e cadaverico nonno, apparentemente mummificato e inerte accanto alla moglie realmente defunta, ma ancora in grado di succhiare sangue alle vittime e cercare di ucciderle a martellate.
Assassini, macellai e probabilmente cannibali,i Sawyer, questo il nome di una delle nostre principali famiglie da incubo, quella di Leatherface, anch’essi ispirata come Norman Bates a Ed Gein, sono il ritratto da incubo del volto più marcio e feroce degli Stati Uniti, quello del profondo sud razzista e violento arretrato ad uno stato selvaggio e ferino. Una famiglia che ha un suo antesignano nei Merrye di Spider Baby di Jack Hill del 1967, il quale tuttavia univa stilemi dell’orrore ad uno stemperamento da commedia, che qui viene totalmente spazzato via.
Siamo nell’America dei redneck e degli hillibillies, tra acol e incesti che si contrappone a quella più civilizzata e moderna, (ma che non per questo risulta a tratti infantile e altrettanto sgradevole), un mondo e un conflitto tra le parti che già era stata raccontato da John Boorman in Un tranquillo week end di paura, film che ha più di una connessione con Non aprite quella porta, il quale esaspera il discorso creando un vero e proprio settings degli orrori, una casa di mostri che vedono nello straniero e nel diverso da loro un intruso da sopraffare ed eliminare,.
Una vera e propria orgia di follia psicologica ben rappresentata dalla agghiacciante sequenza della cena, in cui Sally, legata alla sedia i cui braccioli sono mani umane amputate, viene derisa e umiliata dai terrificanti Sawyer che meditano su chi debba avere l’onore di sopprimerla.
Sulla stessa scia di Non aprite quella porta, e solo di pochi anni dopo, è Le Colline hanno gli occhi, diretto nel 1978 da un vero e proprio maestro dell’horror come Wes Craven.
Anche qui avviene un vero e proprio scontro tra civiltà, tra l’uomo evoluto e quello allo stato selvaggio, e particolare interessante, ad essere coinvolte sono due famiglie, rappresentati l’una e l’altra fazione. Ci sono i Carter, in viaggio per festeggiare l’anniversario di matrimonio, e i figli del deserto, ovvero i cannibali guidati dal patriarca Giove, che vive in una grotta insieme alla moglie e ai figli Plutone, Marte, Mercurio e Ruby, la figlia ribelle e contraria allo stile di vita sanguinario dei parenti e che finirà per dare una mano ai Carter, i quali come da tradizione finiranno per rivestire il ruolo di vittime della situazione.
A conclusione di questa sezione non possiamo invece non trovare La casa dei 1000 corpi (2004) di Rob Zombie, che da Non aprite quella porta attinge a piene mani, tanto da essere talvolta considerato un suo remake non ufficiale.
Il regista-musicista si diverte qui a creare un’altra delle nostre famiglie da incubo,uno squinternato gruppo di pazzi maniaci e antropofagi, i Firely, composti dalla maliarda madre Mother Firefly, la figlia, seducente e spietata, Baby e i suoi fratelli, il gigantesco Tiny e Rufus, il nonno Hugo più alcuni membri ad honorem, ovvero lo psicopatico artista dell’omicidio Otis B. Dritwfwood , il procacciatore di vittime Capitano Spaulding e folle e luciferino Dottor Satan.
Interessante notare come tutti i nomi dei membri, tranne lo scienziato pazzo, oltre ad essere palesemente degli pseudonimi, sono tratti dai personaggi surreali e lunatici dei Fratelli Marx, che ben si sposa con palese passione della demoniaca famiglia per il vintage e il kitch.
Il film è infatti un tripudio di citazioni, riferimenti cinematografici, cultura vintage, estetica punk da videoclip.
Tutte caratteristiche che non immergono lo spettatore nello stesso terrore frammisto a disagio di Non aprite quella porta ma gli fanno quasi provare una sinistra forma di complicità con i diabolici carnefici, eccessivi e sanguinari ma così ben caratterizzati nella loro vitale ed euforica gioia di uccidere e di festeggiare con bizzarri e inquietanti riti da sembrare quasi una versione più truculenta ed estremizzata della Famiglia Addams, sono dei reietti, degli outcast della società, infatti Otis, cha il volto di Bills Moseley, già apparso nel sequel di Non aprite quella porta come fratello di Leatherface, indossa una maglietta con la bandiera americana e la scritta Burn this flag.
I personaggi faranno così breccia nel pubblico da venire riproposti come antieroi protagonisti nel sequel La casa del diavolo dove troveranno la morte per mano di quello che è paradossalmente il vero antagonista del film, che non a caso è uno sceriffo, un tutore dell’ordine non meno spietato e folle dei criminali che insegue.
IL PERICOLO E’ IN MEZZO A NOI
Uno degli horror più famosi nella storia del cinema è indubbiamente Shining (1980) di Stanley Kubrick e tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King, da cui differisce in più di un piano narrativo.
Tuttavia l’assunto su cui basa la storia è lo stesso in entrambi i casi: una famiglia che si ritrova ad essere minacciata da uno dei suoi membri. E non da un membro qualsiasi, ma dal padre e marito, quella che nella cultura patriarcale su cui per lungo tempo l’occidente si è basato, rappresenta l’elemento forte e indissolubile, il braccio severo ma protettivo che ha sempre la situazione sotto controllo e non può mai crollare.
Attraverso l’iconico e ghignante volto di Jack Nicholson, il buon padre di famiglia Jack Torrance si trasforma lentamente e inesorabilmente in un mostro feroce, animato da un desiderio di rivalsa e morte sulla moglie Wendy e il figlioletto sensitivo Danny, complici anche le presenze dello spettrale Overlook Hotel, che lo trainano come un burattino sulla strada del male, facendo leva sulle sue debolezze, prima fra tutte il vizio di bere.
Il finale aperto, voluto da Kubrick in profonda antitesi con King, ci pone il dubbio se Jack altro non sia in realtà che una reincarnazione del custode che da anni porta avanti gli orrori e gli omicidi dell’Hotel, in un continuo e infermabile loop temporale che soltanto la luccicanza del piccolo Danny riesce a mettere in crisi.
Quello che è certo è che l’immagine di Jack Torrance armato di ascia che sfonda la porta per fare a pezzi moglie e figlioletto è uno dei più grandi picchi cinematografici di scombussolamento nella sicurezza di un nucleo familiare.
Un caso particolare di pericolo all’interno della famiglia, anziché di pericolo rappresentato dalla famiglia nei confronti del mondo esterno, è nel recente Hereditary di Ari Aster, che con questa pellicola esordisce nel 2018.
La storia della famiglia Graham, sconvolta dal lutto della figlioletta Charlie, decapitata da un palo mentre si sporgeva da un’auto in corsa guidata dal fratello maggiore Peter, la cui madre Annie (una superlativa Toni Collette) durante l’elaborazione del dolore inizierà a manifestare sempre di più disturbi e segni di possessione, arrivando quasi a diventare una minaccia nei confronti del figlio.
Ma se il film sembra sviarci e farci pensare che tutto sia una folle allucinazione della madre, la quale già tempo prima affetta da sonnambulismo aveva quasi ucciso il figlio, il finale spiazza e sorprende (per quanto preannunciato da una meticolosa serie di dettagli quasi invisibili ad una prima visione). Tutto quanto è stato orchestrato dalla defunta nonna Ellen, matriarca e guida di una setta di adoratori del demone Paimon, incarnato prima nel corpo della piccola Charlie e in cerca di un corpo maschile da indossare, ovvero quello di Peter.
Se quello della minaccia che proviene da un genitore è un topos che trova in Shining il suo esempio più noto, il finale di Hereditary non può invece non far tornare alla mente Rosemary’s Baby di Roman Polanasky (1968), dove guarda caso la setta di satanisti usava il corpo di Rosemary (Mia Farrow) come tramite per concepire l’Anticristo.
Nel celeberrimo finale abbiamo la presentazione dell’abominevole neonato, del quale pur non venendoci mostrato intuiamo il terrificante aspetto, e che addormentato nella sua culla nera viene accettato dalla straziata Rosemary come sua progenie da allattare senza inganni di sorta.
Quando si dice una famiglia demoniaca.
UNO DI NOI! UNO DI NOI!
Non sempre una Famiglia deve avere per forza dei legami di sangue come è stato detto nell’introduzione. Talvolta vi sono grandi famiglie allargate unite da condizioni comuni di vita, di intenti, di credenze, di fratellanza reciproca, da un comune senso di aggregazione e di protezione reciproca nei confronti di un mondo esterno in cui non ci si riconosce.
Di seguito due esempi di film, uno più datato e l’altro contemporaneo, che vanno ad esplorare particolari mondi fatti da altrettanto particolari legami familiari declinandoli nel mondo dell’orrore.
Il primo è Freaks, capolavoro di Tod Browning del 1932, voluto dalla Metro Goldwin Mayer per superare in paura il successo della rivale Universal.
Browning eseguì l’ordine alla lettera e realizzò un film senza effetti speciali e trucchi ma solo con attori realmente affetti da patologie e deformazioni fisiche.
Freaks si ambienta infatti in un circo ambulante, tra nani, uomini senza gambe, uomini torso, donne barbute, microcefali e altri scherzi della natura, senza mai metterli in ridicolo né essere morboso nei loro confronti. Al contrario, la Famiglia di cui parlavamo loro sono proprio loro, i freaks, i deformi, i diversi, i reietti.
Uniti da una indissolubile fratellanza e da un codice d’onore ferreo e spietato che si può riassumere nella massima Se toccano uno, toccano tutti.
Non si sentono diversi nel comportamento di tutti i giorni dalla gente normale, anche loro bevono, fumano, si amano. Ma hanno i loro riti, le loro tradizioni, il loro microcosmo in cui entrare è quasi un rito di iniziazione, non cupo e perverso, ma allegro e goliardico.
Quando però la bella trapezista Cleopatra e il suo complice, il forzuto Ercole, rappresentazione per eccellenza dei normali e degli accettati dalla società, mettono in pericolo uno di loro, il nano Hans, la vendetta è atroce e repentina. Ercole viene ucciso e Cleopatra sfregiata e mutilata fino a diventare una donna gallina, una di loro.
Non aveva accettato di farlo alla festosa celebrazione del matrimonio tra lei e Hans, ordito solo per avvelenarlo, in cui gli allegri deformi intonano per lei il loro mantra gobble gobble one uf us, e si ritrova invece ad esserlo suo malgrado, mancando di rispetto ad un clan unito e vendicativo.
E’ del 2019 invece Midsommar, diretto da Ari Aster, lo stesso regista di Hereditary, qui solo al suo secondo lungometraggio e perfettamente a suo agio come autore dotato di una forte poetica personale.
Midsommar è un horror atipico e non convenzionale, girato quasi interamente sotto lo splendente sole estivo della Svezia, ci immerge in uno scenario piacevole e accogliente, in cui però lentamente si inizia a respirare un disagio che si fa sempre più palpabile fino a scoperchiare le carte man mani che la narrazione procede.
La storia è piuttosto classica, un gruppo di studenti americani va a visitare una comunità svedese che celebra il rito di mezza estate.
La comune di Harga sembra potenzialmente adornata di una idilliaca perfezione, tutto è allegro, bucolico e gioioso. Quando però i nostri assistono al primo rito delle celebrazioni, ovvero il suicidio da una rupe dei membri più anziani, iniziano a percepire sempre più strani presagi, fino a quando non diventa chiari che loro stessi sono stati condotti lì come sacrifici umani.
Esattamente come i freaks di Browning, anche gli abitanti di Harga sono una grande famiglia unita da vincoli e regole non sindacabili. Vivono in simbiosi con la natura, accettano il termine della loro esistenza arrivati ad una certa età e hanno bisogno di sangue per rigenerare il miracolo della vita.
Come i freaks di Browning sono indubbiamente capaci compiere efferatezze e atti sanguinosi, ma la simpatia dello spettatore va in un certo senso nei loro confronti piuttosto che verso le loro vittime.
Ancora una volta è presente lo scontro tra civile e selvaggio, ma qua non siamo nel Texas popolato ubriaconi e assassini, ma tra i verdi boschi scandinavi, dove tutto è pace e armonia.
In un certo senso i veri selvaggi sono loro, gli studenti americani, che nella loro arrogante e ipocrita pretesa di apertura mentale, stanno visitando un luogo che in realtà non rispettano davvero, che considerano solo alla stregua di un trip road in cui sballarsi o da cui carpire i segreti.
Al centro della storia c’è Dani (Florence Pugh) l’unica ragazza del gruppo, in rotta con il fidanzato Chris, (Jack Reynor) vigliacco e superbo, con il quale non riesce più a trovare alcuna empatia e affinità.
E così mentre Chris viene usato dal villaggio come strumento per concepire nuova vita, Dani trova nella atipica comunità un nuovo mondo che la capisce e la rispetta, che è compartecipe del suo dolore, che piange, urla e si sfoga con lei, che ne farà la sua nuova regina.
Reietta e non compresa tra la sua gente, Dani trova in Harga una nuova casa, una nuova famiglia, a differenza di Cleopatra di Freaks, finisce per accettare di buon grado il gobble gobble one uf us che le viene lanciato.
Certo, il prezzo è di ordinare il sacrificio del suo ex fidanzato che viene bruciato vivo avvolto insaccato dentro una pelle di orso, e di gioire del rito con febbrile follia negli occhi.
In fondo non si dice spesso che la famiglia si accetta con pregi e difetti?
FAMIGLIE DA INCUBO NON SOLO NEGLI HORROR
Ci sono alcuni registi che pur non muovendosi unilateralmente nel territorio del film dell’orrore, hanno saputo tracciare dei lucidi discorsi sulla famiglia come nucleo fondante di orrori e disfunzioni e arrivando spesso a inquietare lo spettatore ancora di più che con una storia di horror classico.
Yorgos Lanthimos ci fornisce ben due esempi di questa particolare poetica con Kynodontas (Dogthooth) del 2009 e il Sacrificio del cervo sacro del cervo sacro del 2017.
Nel primo, un padre e una madre tengono i propri figli, un maschio e due femmine, segregati in casa fin dalla nascita, tenendogli nascosto tutto ciò che accade ed esiste nel mondo esterno in un estremo atto di protezionismo nei loro confronti. Un contesto familiare che è una vera e propria prigionia fatta di menzogne, rocamboleschi stratagemmi per non far conoscere la verità, addirittura una assenza di nomi propri, un’esistenza alienante e protesa ad una ricerca della libertà a qualunque costo.
Il sacrificio del cervo sacro è invece la storia di uno stimato cardiochirurgo (Colin Farrell) che dopo aver perso un paziente perché in stato di alterazione psicofisica, si ritroverà a subire l’atroce vendetta del figlio del defunto, il quale con dei non meglio specificati poteri farà ammalare progressivamente i suoi due figli rendendoli prima storpi e poi quasi totalmente paralizzati, minacciando di non fermare il processo fino a che l’uomo non uccida un membro della famiglia a scelta.
Una situazione che affonda le sue radici di tragedia familiare nell’ellenico Sacrificio di Ifigenia, e che va a sviscerare con crudeltà l’egoismo e l’istinto di sopravvivenza che miete le sue vittime anche nella più sacra delle istituzioni.
Sulla nostra strada troviamo poi Michael Haneke, il quale dopo aver sottoposto una tranquilla famigliola alle sadiche sevizie meta- cinematografiche di Funny Games, criticando con caustica verve il gusto morboso del pubblico nel farsi spettatore di gratuite carneficine, spiazza e sconvolge con Il Nastro Bianco (2009), dove con una rappresentazione austera e compassata di un villaggio prussiano del 1918 dove avvengono misteriose morti e aggressioni, riesce a raccontare la reale mostruosità che cova un certo tipo di educazione patriarcale e calvinista che con si suoi rigidi e bigotti precetti basati sul concetto di colpa e punizione può creare dei nuovi mostri tra i fanciulli che saranno i nazisti del domani.
Un film che pur non avendo nessuno stilema del cinema horror è a tutti gli effetti una cupa fiaba a tinte fosche e oscure.
Infine Charlie Kaufman con il suo recente Sto pensando di finirla qui, labirintica riflessione sul passato e il fallimento fatta da un uomo ormai anziano e perso nei meandri della sua mente dove ripensa con rammarico a tutte le occasioni che ha sprecato e tutte le donne con cui non è stato, racchiudendole in una ideale e perfetta fidanzata immaginaria con la quale viaggia avanti e indietro nel tempo, facendola così reale che lo spettatore è quasi portato a pensare che il punto di vista reale è il suo, e con la quale va a visitare la casa paterna e incontra i genitori, interpretati da due magistrali David Thewils e Toni Collette, in una sequenza che all’improvviso assume toni cupi e sinistri, e sembra per una fetta di film condurci in un vero e proprio horror, quasi un film nel film (come del resto accadrà in altre sequenze con altri generi) e che ci riporta in una infanzia frustrata e incompresa dove i ricordi di un bambino si tramutano negli incubi di un adulto.
STRANO E’ BELLO
Per finire con una nota più colorata e allegra questa carrellata di mostri che abitano il quotidiano, non potevano mancare che loro, The Addams Family, creati dalla matita di Charles Addams nel 1938. Questi personaggi che, nati come protagonisti di vignette umoristiche assestanti l’una dall’altra, diventeranno progressivamente una vera e propria famiglia con peculiari caratterizzazioni per ciascun membro e legati tra loro, oltre che dalla parentela, dall’amore il il gotico e il macabro, ovviamente declinati sul versante umoristico.
I personaggi avranno così tanto successo da generare una serie televisiva negli anni 60′,(dove nel cast figuravano John Astin, Carolyn Jones e Jackie Coogan) una versione a cartoni animati, e diversi lungometraggi di cui i più famosi sono quelli del 1991 e del 1993 diretti da Barry Sonnefeld con ottime prove attoriali di Raul Julia, Anjelica Houston, Christopher Lloyd e Christina Ricci.
I personaggi sono arcinoti, Gomez, passionale spadaccino, la sensuale moglie dall’aspetto vampiresco Morticia, Fester, squinternato zio generatore umano di elettricità, i figlioletti Pugsley e Wednesday (Mercoledì), la nonna strega, Lurch il maggiordomo dalla forza sovra-umana, Mano, una mano che vive in una scatola e cammina sulle dita e il peloso cugino Itt.
Punto di forza tra tutte le versioni è il forte divario che si crea tra gli Addams e il mondo normale che c’è al di fuori della loro magione.
La Famiglia così a proprio agio tra libri satanici, sedute spiritiche, piante carnivore, bambole con la testa mozzata, strumenti di tortura usati come giochi o come fonte di rilassamento, e i loro interlocutori esterrefatti e interdetti che considerano tutto ciò che per loro è fonte di piacere come abominevoli orrori.
E’ l’intromettersi dell’umorismo in gran parte del discorso che abbiamo fatto fino ad adesso, il conflitto tra due modi differenti di intendere la società resta, ma gli Addams sono il nostro punto di vista, ci affascinano e proviamo simpatia nei loro confronti, soprattutto perché sono una famiglia unita, felice, spensierata che fa dello spettrale e dell’incubo un gioco, un divertimento in contrapposizione alla noia e al conformismo della società moderna.
In fondo ad Halloween quando ci si traveste da mostri e creature spaventose è per sentirsi per una sera come loro. Talvolta è così noioso il mondo senza un po’ di sano orrore.
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